Domenico Vendramin, Memi per gli amici, faceva il bigliettaio e poi il controllore alla S.I.A.M.I.C. di Treviso, ditta di collegamenti extraurbani, sviluppatasi nel dopoguerra soprattutto con il boom economico, quando tutti trovavano lavoro ma non possedevano ancora la macchina per spostarsi.
L'Azienda di autotrasporti assunse in seguito il nome di F.A.P. e poi A.C.T.T. Fatto è che a Domenico quel lavoro andava troppo stretto e non solo perché era un tipo intraprendente, ma anche e soprattutto perché la famiglia cresceva e bisognava rimboccarsi le maniche.
Fin da piccolo, pur essendo figlio di Edoardo - un bravo muratore, specialista in archi in pietra, tale da svolgere il suo lavoro principalmente in una città d'arte come Venezia - Memi era attratto dal mestiere di fabbro ferraio.
Più volte gli era capitato di vedere all'opera l'artista trevigiano del ferro battuto Toni Benetton e gli era venuta la voglia di provare egli stesso a cimentarsi con la mazza e l'incudine, scoprendo di possedere un talento inusitato.
Domenico, avvalendosi dell'officina di maniscalco di Giulio Biscaro, che abitava nella stessa Via Trieste, a Paese, in cambio di qualche aiuto a comporre con il ferro rami di vite, con foglie tralci e grappoli d'uva verniciati a mano, che vendeva alle trattorie del Montello, e questi manufatti gli riuscivano così bene che incontrarono i favori della critica popolare tanto da fargli piovere addosso tante commesse.
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